
“C’è un solo modo per possedere tutto: non desiderare niente.”
Emile M. Cioran
Nell’articolo precedente (https://ohmybridge.wordpress.com/2023/03/13/sei-in-ascolto/), ho ammesso che, anche se sono convinta di essere una buona ascoltatrice, in realtà non è sempre così. Spesso l’idea che mi sono fatta, condiziona l’ascolto che dedico al mio interlocutore e devio le sue parole, per confermare una mia tesi già elaborata. Questo non va bene. Lavorerò affinché questo accada il meno possibile.
Pur ammettendo di non essere un nobel dello stare a sentire, mi sento tuttavia di affermare che sono un’osservatrice compulsiva; questa mia abitudine di analizzare ogni cosa e ogni comportamento, mio e degli altri, in parte è responsabile dei miei preconcetti. Lo studio e l’apprendimento di qualsivoglia argomento, ha creato in me un database, seppur impreciso, piuttosto ampio, in cui è facile perdersi ogni tanto.
Per esempio di recente la mia attenzione è caduta sull’abitudine generale di dichiarare ciò che manca e mai ciò che si ha.
Un salone di parrucchiere sembra (e sicuramente in parte lo è) un luogo frivolo, in cui lo “spessore” degli argomenti di conversazione, rimane confinato ad un livello superficiale. In realtà leggere con occhi diversi, le dinamiche comportamentali di chi lo frequenta, può rivelare ben presto che di salottiero c’è poco.
Quindi ho potuto stilare una mia personale statistica in base alle tante e diverse tipologie di persone che frequentano il mio negozio e posso affermare che, l’abitudine a concentrarsi su ciò che non abbiamo è di gran lunga superiore a chi invece gioisce del possedere un qualsiasi bene, materiale o astratto.
Mi sono domandata se questo sia giusto e proficuo, dopotutto tendere ad avere di più e di meglio, non dovrebbe essere concettualmente sbagliato.
Ovviamente la risposta l’ho trovata nel bridge.
Nel ricordare che sono un’allieva dei tavoli verdi, nel mio bagaglio di gioco, per il momento ho imparato solo licite in cui io trasmetto al mio partner ciò che possiedo. L’alternanza di informazioni che i due compagni si scambiano, prevede solo dichiarazioni che informano punti e quantità di carte in possesso in un colore o in un altro.
Questo permette di conoscere la forza della coppia e l’insieme delle proprie energie permetterà di capire come è meglio procedere nella smazzata.
Spesso ciò che manca ad entrambi lo si apprende per intuizione.
Nel bridge questo sistema di comunicazione funziona a meraviglia. Se veramente voglio credere che il bridge sia un esempio in cui trovo risposte soddisfacenti alle dinamiche della vita, potrei allora affermare che è molto più proficuo comunicare agli altri ciò che si ha.
Allora mi interrogo se nel quotidiano, l’abitudine a fare il contrario, non sia una delle cause frequenti di insoddisfazione.
Forse è il caso di esprimere meglio questo concetto.
Non confondiamoci tra la penuria di ciò che ci è necessario e la cupidigia di ottenere ricchezze sempre maggiori.
Mi sembra abbastanza ovvio che se ho bisogno di un ananas, andrò dal fruttivendolo a comprare ciò che mi manca. Quello che invece sarebbe importante introitare come forma di pensiero, è che troppo spesso abbiamo l’abitudine di lamentarci di ciò che non abbiamo e di cui spesso potremmo fare a meno, senza guardarci indietro e contare su quel che invece ci appartiene e che renderebbe già la nostra vita migliore.
Questa tendenza a fissarci sul vuoto, ci mantiene sempre sull’orlo del precipizio cercando un appiglio per andare avanti, quando spesso dietro di noi abbiamo un prato verde su cui stendersi a guardare le nuvole.
Sappiamo perfettamente che siamo tutti schiavi di un consumismo sfrenato, dal quale è quasi impossibile tirarsi fuori.
Riusciamo a consumare cibo, oggetti e sentimenti ad una velocità sorprendente. L’unica via è avvicinarsi il più possibile ad un equilibrio che comprenda anche la consapevolezza di quello che già ci è toccato, senza accantonarlo come un pezzo da collezione, ma come un qualcosa presente nel nostro quotidiano da godere per ciò che è.
Il bridge è molto chiaro in questo. Ad ogni smazzata la piena consapevolezza del valore delle tue carte, ti permette di esporti con i talenti che ti sono stati dati. Dopo la prima fase di licita che determinerà il contratto più giusto in base a ciò che hai, inizia la fase più delicata del gioco della carta; ed è lì che potrai andare alla ricerca di ciò che ti manca, rischiando talvolta manovre azzardate, che potranno avere fortuna oppure se sei più esperto conquistarti con intelligenza. Niente però verrà realizzato se non hai ben chiaro quello che è già di tua proprietà.
Ambire a quello che manca è una speranza, gestire ciò che abbiamo in dote invece è una certezza.
Che ci piaccia o no, quando scendono le carte e manca un re di cuori che ci avrebbe fatto tanto comodo, non sarà di nessuna utilità continuare ad invocarlo; purtroppo agli onori delle carte non sono mai stati disegnati i piedi, impossibile quindi che volontariamente si metta in viaggio per entrare nella nostra mano. Dovremo conquistarlo con i mezzi di cui disponiamo e se questo non dovesse riuscire, significa che non era destinato a noi.
Un po’ come la salute, non mi sento per nulla cinica se affermo che, pur augurandomi sempre di avere un corpo con le prestazioni di una Ferrari, se invece ad un certo punto mi accorgo di viaggiare su una Fiat Duna dovrò farmene una ragione e pur spremendo il meglio delle prestazioni, difficilmente potrò gareggiare sul circuito di Imola, ma sarò in grado lo stesso di visitare e raggiungere quasi tutte le mete che mi sono prefissata.
Il mio compagno di bridge, ha dovuto patire parecchio, prima che mi fosse chiara davvero la sua esortazione: -Dammi la tua mano!-.
Convincere gli allievi di bridge che, tra le cose più importanti da mettere in atto fin da subito, è saper comunicare al proprio partner la forza e la distribuzione delle proprie carte, non è facile.
Essenziale è dichiarare ciò di cui si dispone, che siano punti, numero di carte o fermi nei colori licitati dagli avversari. Solo in questo modo, agevoleremo il partner e un naturale proseguimento del gioco. È dichiarando ciò di cui siamo dotati che permette di capire quello di cui siamo in difetto. Infatti a bridge si usa dire: “dare la propria mano” mentre nel mondo reale nel momento del bisogno si dice “dammi una mano”.
Questione di prospettive, ma che fanno differenze abissali.
Io ho già scelto la visuale del bridge, oppure ho scelto il bridge perché ha un’ottica che mi appartiene. Adesso però mi è chiaro che, offrire volontariamente la mano, ti posiziona sempre in vantaggio rispetto a chi la chiede.
Ti rende estremamente consapevole di ciò che hai e rende edotti gli altri all’uso che ne possono fare.
Se desidero un ananas ma abito in “Val Di Non”, mentre cerco una soluzione, posso sempre farmi una bello strudel di mele, che è un bel modo di tirare avanti..
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